martedì 3 giugno 2014

Le ombre del Destino: Il Cavaliere dagli occhi purpurei



Sùilad!
Qui sotto troverete il primo capitolo del romanzo fantasy Le ombre del Destino, Il Cavaliere dagli occhi purpurei, edito da Europa Edizioni.

Vi sarà possibile leggerlo in due formati differenti:
- Direttamente su questo Blog, continuando a scendere;
- Scaricando il Formato PDF del primo capitolo



In entrambi i casi potrete leggere la prima parte del romanzo, ma con alcune differenze dall'originale, che non sono state accettate dall'editore. Vi auguro un buona lettura!

NB: Ringrazio Simone e Marta per aver collaborato alla sistemazione delle bozze. 



(Clicca sopra)


Guarda il Trailer:
(Con la voce dell'attore Francesco Masala)



Edificare Universi



Giovanni Giuseppe Pintore
Le ombre del destino Il Cavaliere dagli occhi purpurei

ISBN 978-88-6854-112-5

© 2013 Europa Edizioni s.r.l. www.europaedizioni.it
I edizione febbraio 2014




Prologo

Un’esplosione di perplessità scaturì al termine della “Guerra degli Dei”; ogni singolo soldato, o comandante dei due eserciti opposti, si fer­mò a lungo ad ammirare il cielo, inerme dinanzi al potere delle divini­tà: il sole e la luna scioglievano il loro legame, allontanandosi dopo due giorni d'intramontabile eclissi. Il calore e la dolcezza dei raggi irradiati dall’evento purificarono l’ormai silente Ponte di Thyr. Non vi erano più soldati sul campo di battaglia, solo cumuli di cenere e petali d’om­bra. Mistiche luci illuminavano l'estesa ed artificiale superficie rocciosa: spade e scudi infranti giacevano sul terreno, ed inutili bandiere dalle di­verse sfumature sventolavano solitarie nel soffio gelido di un'immonda quiete. Pozze di sangue e frammenti di legno, metallo e pietra erano gli unici simboli di una battaglia ormai conclusa. I superstiti avvertirono solo una perfetta stasi in quel luogo, ove ogni pretesto per affrontare quella guerra non trovava più i reali motivi per continuarla; le due schieramenti avevano perduto ogni sorta di supporto degli Dei. Non ri­manevano che creature mortali a vivere ciò che ne era stato di una lotta sanguinosa e crudele, ove più mondi avevano contribuito ad alimentare le speranze di un'unica causa: la pace era finalmente giunta, ed il Re era in salvo.

Nel silenzio della vergogna ogni singolo trovò la propria strada: mai come in quel momento l’ira degli Dei si era mostrata tanto temibile. So­larniar e Shania, divinità del sole e della luna agli occhi del mondo, avevano calato con inorridita fermezza la loro furia su entrambi gli eserciti, punendo i propri figli: mai come in quell’istante quel mondo antico aveva tremato; la paura e lo sconforto erano palpabili nell’aria. Era l’evento che segnava una svolta, una seconda opportunità per chiunque avesse avuto intenzione di coglierla: era l’inizio della Nuova Era.

Sullo Stretto di Thyr sarebbero rimasti solo i Grandi Tirdir, i quattro imponenti guardiani di pietra siti a capo ed alla fine del ponte, due per parte: sarebbero stati gli unici a custodire per l’eternità il ricordo di quella battaglia, ma nessuno avrebbe mai udito la loro storia.

Le vite di ogni singola creatura ripresero a scorrere come un tempo, al­l’oscuro di sussurri lontani che si animavano dietro i colli e le stermina­te Pianure del Diamante; l’ombra della guerra si sarebbe tramutata presto in un pallido ricordo, del quale solo Elfi e Nani avrebbero ser­bato ferrea memoria; non come gli uomini, travolti dagli eventi, e soliti scordare ciò che più li ha afflitti per poter guardare avanti.

Nuovi regni vennero proclamati, ed ognuno scelse da sé la strada da se­guire, assecondando le proprie leggi ed onorando i propri Dei, amplian­do il rispettivi territori e dando vita ad una nuova epoca, fatta di con­quiste libere. La pace tra i regni, però, fu solo una maschera dietro alla quale tutto il mondo non poteva nascondersi: piccole battaglie si susse­guirono, ma nessuna vera minaccia insidiò la stabilità; nessun sovrano osava posare gli stendardi del proprio esercito sul territorio ove la tragi­ca guerra era stata combattuta, al fine di risparmiare ai sopravvissuti di Draakhonsgaard ulteriori inutili sofferenze.



Ciò che il mondo comprende, ma non accetta, è che il male trova sempre un modo per ritornare; nonostante ci si sforzi per evitarlo, il suo seme è infido, e germoglia tra le folle delle città e le gole sperdute, nei profondi mari e negli aridi deserti. Alla nascita di una crudeltà, Draakhon­sgaard subisce, in attesa che una stella luminosa cada dal cielo, impu­gnando l’ira degli Dei ed indossando un’armatura di luce, pronta a do­nare al mondo ogni frammento della sua pura essenza, senza richiedere in cambio alcun tributo, se non una retta via di pace.

In un’era di ombre occultate da fittizie luci, nasceranno le speranze di un mondo intero; nel corso dei secoli di apparente pace si forgeranno nuovi destini: le tessitrici dell’Arcano Arciere attendono pazientemente che la tela sia completa, prima di spezzare i fili del destino.

In una terra pregna di leggende, i Draghi sono divenuti mito: la Guer­ra degli Dei coincide con la loro fine. Sei Eroi, in dorso alle maestose creature alate, si tuffarono giù per le calde gole dei Sette Inferi di Ala­sgorth, alla ricerca di un potente artefatto creato in tempi dimenticati, quando i Draghi dominavano solitari quelle terre un tempo selvagge. Si narra che solo uno dei Sei riuscì ad emergere dalle maligne fauci magmatiche, sfuggendo all’ira di Hail Vas, padrone di quelle lande di dannazione e Signore dei Morti. La luce espressa dall’artefatto ebbe modo di risplendere sotto un cielo oscuro, concedendo così la discesa di creature pure al servizio dei Cinque Divini, pronte a donare alle terre dei Draghi un’ultima possibilità, prima che lo scontro potesse distruggerle.

Nuovi eroi nascono continuamente, ed altrettanti abbandonano precoce­mente questo mondo. Solo coloro muniti del fulgore divino potranno re­care lo stendardo della luce ove le ombre dimorano.


 Estratto dei Canti della Creazione,
 Glandirn

 





Capitolo I 
Memorie di un’orfana



L’alba del nuovo anno venne cullata dal sussurrante vento del nord, Elhòandar, ad accompagnare le prime sfumature del duecento trentatreesimo anno di pace dopo la guerra, se­condo gli archivi popolari del Regno di Radharon. Un velo di luce donava ancora vita ai contorni del paesaggio innevato fuori dalle mura di Èndhàr’ Kròn.
Gelida era la brezza che spirava nei pressi di una casupola nascosta da una schiera di alberelli bianchi, posta all’ombra della montagna ricca di giacimenti di ferro, quando del suo­no dei picconi battenti non vi era più eco e tutto taceva, con­cedendo di udire il lamento insofferente di una infante, ac­compagnato dal rintoccare costante di alcune gocce sul pavi­mento dell'abitazione. All’esterno della struttura, un uomo dalle vesti rosse sostava. Il suo crine castano chiaro cadeva sulle spalle, ed una barbetta incolta ne avvolgeva le guance: i primi cenni degli inverni trascorsi fin troppo anticipatamente la sporcavano di rare chiazze bianche. Comuni erano gli abiti che portava indosso, rendendo onore alla sua carica: una lun­ga tunica con lacci neri all’altezza del colletto e dei polsi, ed una cintura bruna alla vita, alla quale si trovava agganciato il fodero di un pugnale la cui elsa – così come la custodia stes­sa – mostrava l'esigua manifattura tipica di uno strumento di scarso valore. Nella mano sinistra teneva il manico di un pic­colo cesto, sul quale era adagiato un panno bianco ben puli­to; la mano destra, invece, si trovava sospesa a mezz’aria, se­michiusa ed immobile, a pochi centimetri dalla porta di legno rinforzato.
Il rumore di un vetro infranto squarciò la calma di quel po­meriggio ormai moribondo, seguito dal forte gracchiare di alcune cornacchie in fuga dagli alberi circostanti; gli occhi cinerini dell’uomo, ora spalancati, non poterono che cogliere di sfuggita una figura ammantata in vesti scure precipitarsi nel fitto del bianco bosco. La mano dell’uomo roteò istintivamente il pomello della porta, scostandola rapidamente: dentro, il buio soffocava ogni cosa, nonostante alcune candele disposte nella stanza creassero minuscoli isolotti di luce in quel mare di oscurità.
Il passo incerto dell’individuo fece scricchiolare le assi del pavimento di legno; lentamente, quasi quei rumori fossero in grado di dar voce ai sussultanti battiti del suo cuore. Alcuni dei lumi rischiaravano un letto sul fondo della stanza: sulla sinistra di questo si trovavano una finestra infranta, l’unica ad essere aperta, ed un secchio da cui colava un rivolo vermi­glio; tra le lenzuola del letto sporche di sangue una neonata piangeva, stretta al seno sinistro di una donna. I lunghi ca­pelli castani le coprivano parzialmente il lattescente viso, pal­lido, fin troppo esanime per un corpo che aveva l'aspetto d'essere appena spirato. L'elsa di un pugnale troneggiava sul suo ventre, ed il sangue colava ancora dalla mortale ferita che le era stata inferta, impregnando le lenzuola sino a gocciolare sul pavimento.
Immobile permase l’uomo in rosso, ora con lo sguardo bas­so, nel tentativo di distogliere l’attenzione da quell’orribile scena: il cesto tenuto nella mano sinistra gli scivolò senza che fosse in grado di accorgersene. Una volta giunto a contatto con il pavimento, andò ripiegandosi sul lato destro, lasciando così fuoriuscire dal suo interno un mazzo di rose rosse ed al­cune mele, che sui fiori si riversarono come una valanga, schiacciandoli.
Rimase a lungo inerte ai piedi del letto, mentre uno sguardo tormentato posava sulla bambina stretta alla madre; infine, i suoi passi spezzarono ancora una volta il silenzio all’interno della casa, arrestandosi solo dopo aver raggiunto il lato de­stro del giaciglio. Portò una mano al viso della donna, liberandolo dai lisci capelli, quasi volesse osservarla per un’ultima volta. Dai grigi occhi presero a sgorgare sofferte lacrime, mentre copriva quelli della giovane, chiudendoli dol­cemente.
Con le mani tremanti avvolse il corpicino della neonata, al­lontanandolo dal cadavere della madre per sincerarsi delle sue condizioni; le iridi di quella bambina avrebbero lasciato chiunque sorpreso: erano come due piccole sfere di un in­tenso colore purpureo, quasi delle ametiste fossero state in­castonate su un drappo cremisi.
Intanto, la piccola si era tranquillizzata fra le braccia, ora meno agitate, dell’uomo, e solo quando egli si rese conto che pareva essersi abbandonata alla stanchezza, l’avvolse nel pan­no che copriva il cesto che si era portato dietro. Dopo aver disposto all’interno del canestro un piccolo lenzuolo, vi ada­giò la neonata, lasciandola al sicuro sopra il tavolo, mentre lui si occupava di riordinare l’abitazione.
Liberò un armadio degli inutili utensili che l’appesantivano, gettandoli a terra, e trascinò il mobile a protezione della fine­stra, bloccando quella via d’accesso alla casa; poi, mentre frugava negli altri arredi, riuscì a recuperare una chiave na­scosta all’interno di un cassetto vicino al letto, ove il corpo della donna riposava inerme, ed a tratti pareva quasi sempli­cemente dormire. Recuperato il cesto e donato un ultimo sofferto sguardo a colei che aveva amato, si avviò verso la porta, contrastando uno sbuffo gelido che si era avventurato nell’abitazione, spegnendo le candele che mettevano in mo­stra l’orrore vissuto dagli occhi dell’uomo.
I pesanti passi infransero ancora una volta l'angosciante si­lenzio, mentre egli usciva all’esterno tenendo stretto il cesto con la mano sinistra; intanto, con la destra roteò la chiave al­l’interno della toppa della porta, provocando un sinistro schiocco emesso dall’ingranaggio della serratura, come se non fosse stata la semplice porta di una casa a chiudersi, ma quella di un antico mausoleo.
Il sole era ormai morto, lasciando spazio all’incalzante notte priva di luna, e l’uomo affrettò il passo in direzione della cit­tadina, mentre copiosi rivoli abbandonavano i suoi grigi oc­chi, segnando le guance barbute. Silente era intanto la picco­la, che sino a quel momento aveva riposato. Ora osservava colui che la portava via da quell’incubo con occhi velati da un'affascinante ma al contempo inquietante bellezza, come se un rubino e un’ametista fossero state fuse: lo guardava in­curiosita, come se desiderasse comprendere il motivo della sua tristezza. L’uomo ricambiò quello sguardo, dopo aver passato il dorso della mano ad asciugare il viso, tenendo an­cora stretta la chiave che solo adesso, mentre sosteneva l'e­spressione della piccola, ripose all’interno di una tasca nasco­sta della rossa veste.

Ben presto le mura di Èndhàr’ Kròn si sarebbero stagliate imponenti; ai piedi di esse e del cancello principale, ormai prossimo ad essere chiuso, una lunga fila di contadini pareva essere di ritorno dall’ennesima faticosa giornata di lavoro, appesantita dal gelo di quei giorni. Alcuni carri sostavano ac­canto alla muratura, perquisiti da quattro Guardiani in arma­tura completa e dai lunghi mantelli rossi. Gli elmi che indos­savano coprivano quasi interamente i loro volti, lasciando vi­sibili unicamente gli occhi e la bocca; ognuno di essi portava appesa al fianco sinistro una spada lunga, occultata appena dallo scudo torre, che imbracciavano con naturalezza. Sul dorso della protezione era raffigurato il simbolo del Regno di Radharon, proprio come all’altezza dei pettorali dell’armatu­ra e del mantello: una corona d’oro attraversata da una spada lunga dall’elsa rossa, con la lama rivolta verso il basso.
Oltrepassato facilmente il cancello d’ingresso, il figuro prose­guì sino ad una struttura in pietra che si ergeva su due piani; altrettanti soldati sostavano ai lati della porta d’ingresso, sul cui stipite era inciso il simbolo reale. Un amaro saluto venne rivolto alla copia posta a presidiare l’uscio, prima di prosegui­re oltre, all’interno di un corridoio che si prolungava sino a due rampe di scale; sulla sinistra e sulla destra si affac­ciavano quattro porte, ed egli avrebbe varcato la soglia della prima sulla destra.
All’interno della stanza era accomodato un uomo dalle vesti color giada, con un’elegante maglia munita di lacci aurei sul colletto, e dei pantaloni stretti accompagnati da due scarpe della stessa tonalità del grano; i suoi tratti erano invecchiati da un pizzo ben curato e da capelli lunghi dello stesso colore della notte, mentre gli occhi castano chiaro si adagiarono sul nuovo arrivato. Il suo tono si fece chiaro e deciso, tipico di chi ha affrontato una lunga giornata colma d’impegni, e s’at­tende brutte notizie: «Sùilad. Colgo parecchia fretta nel vo­stro porre passo in questa stanza, ed immagino non siate qui per una visita di piacere. Parlate, vi ascolto!» disse tutto d'un fiato.
«Gowernon, amico mio...» farfugliò l’uomo, tentando di fre­nare le lacrime, mentre il Guardiano si faceva più cupo in volto.
«Ditemi cosa è accaduto... e chi è la piccola dentro il cesto?» domandò, sorpreso di vedere quella bambina.
Intanto la neonata era rimasta in silenzio, ed incuriosita pare­va farsi attrarre da tutto ciò che la circondava. Lo sguardo dell’uomo dalle vesti rosse ritornò sul corpo della piccola: l’espressione serena della bimba non poteva che rattristare ancor più i sofferti pensieri dell'individuo.
«Ho bisogno del vostro aiuto: poco fuori dalle mura di Ènd­hàr, nel bosco, si trova una casupola... ho impedito ogni via d’accesso, e questa è l'unica chiave che sblocca la porta» disse mettendo in mostra l'oggetto. «Giungo dalla dimora di Rain­sun... dama Leirien... lei... lei è...». Un profondo silenzio piombò nella stanza, mentre l’uomo, con la testa bassa, non riusciva a pronunciare quella parola. Il soldato provò a rassi­curarlo, scuotendolo appena, invitandolo a proseguire nel proprio racconto.
«Parlate! Che cosa è accaduto alla giovane Leirien? Dove si trova Rainsun?» esclamò agitato, con in volto l’espressione del sospetto.
«L-lei... È spirata... Un’ombra correva lontana, e mi sono precipitato dentro casa il più presto possibile... ma era trop­po tardi, Gowernon: ella giaceva sul letto in una pozza di sangue. Un pugnale l'ha strappata a questo mondo. La fine­stra era rotta... La piccola stringeva ancora il corpo della ma­dre» provò a spiegare l’uomo con tono afflitto, ma presto le lacrime tornarono a sgorgare con più vigore sul suo viso, ab­bandonando le gote ed infrangendosi sul pavimento in pie­tra.
Lesto, il soldato si diresse appena fuori dalla porta, e la sua voce si fece possente, mentre impartiva chiari ordini ad altri tre posti poco fuori dalla stanza: «Voi, venite qui, subito!».
Il pesante rumore di armature rimbombò per tutto il corri­doio, mentre Gowernon si dirigeva al tavolo, dal quale aveva recuperato l’elmo ed una spada lunga, sul pomolo dell'elsa troneggiava l'incisione di un elmo argenteo: era il simbolo dei Custodi delle Porte, soldati scelti per la loro attitudine al comando.
«Tornate a casa: ci occuperemo noi della faccenda. Verrò a farvi visita appena possibile... lo troveremo. Scopriremo chi è stato, amico mio!».
Detto questo, il Guardiano fece per allontanarsi, sebbene le parole dell’uomo lo richiamarono ancora una volta:
«Gowernon... Prendete questa, vi servirà» disse fra i sin­ghiozzi, allungando in sua direzione la chiave dell’abitazione.
L’amico gli volse un cenno del capo, prima di allontanarsi in compagnia dei suoi sottoposti; il tintinnio delle loro armatu­re si confuse presto con il resto dei rumori esterni alla caser­ma.
L’uomo dalle vesti rosse venne lasciato nuovamente da solo; davanti ai suoi occhi unicamente quel cesto, ove la figlia della donna che aveva segretamente amato dormiva. Solo pochi altri istanti in più avrebbe trascorso all’interno di quella fred­da stanza, prima che fosse riuscito a farsi forza, e si fosse de­ciso ad allontanarsi, tenendo tra le braccia il cesto. Cammina­re per quella città non era mai stato così malinconico e privo di senso come in quel momento: il Quartiere delle Porte scorreva lentamente davanti ai suoi occhi, ed i tetti rossi delle case, coperti parzialmente dalla neve, lasciarono ben presto spazio ad altri molto più ampi ed innevati; le stesse abitazio­ni, man mano che l’uomo proseguiva verso il centro della cit­tà, si facevano più grandi, donando una maggiore oscurità a quella strada principale che andava percorrendo. Agli angoli dei palazzi poteva scorgere qualche figura intenta ad accen­dere le lanterne fuori dalla propria dimora, o bambini in fe­sta correre per i vicoli, mentre i Guardiani consigliavano loro di ritornare dalle proprie famiglie. Il tediato passo si arrestò solo davanti a degli scalini: una sottile coltre bianca affollava i bordi, ed egli risalì quei cinque gradini quasi stesse scalando una montagna, prima di svanire stancamente oltre la porta.
La casa in cui si trovava gli era appena stata affidata: pochi mobili occupavano le stanze della ristretta dimora, ed il tutto permaneva avvolto in una grigia atmosfera; uno spicchio di luce filtrava all’interno della sala da pranzo, concesso dalle distanti lanterne degli edifici posti dall’altro lato della strada. L’uomo agitò stancamente la mano a mezz’aria, mentre an­dava emettendo sussurri dalle sue fini labbra, prima che le candele posate sul tavolo si accendessero istantaneamente, il­luminando lentamente la camera; un piccolo camino era sito davanti al tavolo, una finestra sulla destra ed il solito piano per cucinare sulla sinistra. Stese delicatamente la piccola sul tavolo, ancora avvolta nella calda coperta, e posò anch’egli la testa sulla lignea superficie, perdendo il suo sguardo nel vuo­to.
Non sapeva cosa avrebbe fatto da quel momento in poi, né tanto meno cosa il futuro avrebbe riservato per lui e quella piccola creatura. Ma, quando la bambina gli pizzicò energica­mente l’orecchio, costringendolo ad immergere i suoi occhi cinerini in quelli purpurei di lei, tutto parve d'un tratto chiaro. Comprese il suo destino: sarebbe stato al suo fianco.

Da quel tragico giorno gli anni trascorsero rapidamente, e l’uomo si prese cura della piccina, crescendola con tutto l’a­more che poteva donarle. Le diede il nome della defunta ma­dre, Leirien, affinché la piccola potesse portare con sé parte di ciò che la legava alla sua famiglia. La casa divenne ben presto accogliente, abbastanza per offrire alla bambina un luogo dove crescere serenamente.
Leirien mostrò sin da subito una spiccata capacità di ascolto: ogni qual volta l’uomo aveva da raccontare qualcosa, lei si se­deva incuriosita, con le gambe incrociate ed un sorriso avido di avventure sul viso. Pendeva dalle labbra del cantastorie, che le narrava le novelle più incredibili che parlassero di quelle terre: dai lontani racconti sui Draghi alle leggende po­polari.
«I popoli continuano a cercarli nei cieli, pur consapevoli che essi abbiano abbandonato queste terre oltre duecento anni or sono... Nessuno di questi folli ha mai pensato di cercarli ove un tempo gli stessi Draghi riponevano in noi le proprie speranze: nei nostri cuori!», soleva dirle con un raggiante sorriso, quando domandava che fine avessero fatto quelle maestose creature.
Fu così che le venne impartita una basilare conoscenza sulle divinità che nell'intera Draakhonsgaard proteggevano le di­verse popolazioni. Imparò il valore del sacrificio e s’innamo­rò delle battaglie degli eroi di Èndhàr’ Kròn, comprendendo in primis il significato di quell’appellativo che era sulle labbra di tutti, ma del quale solo pochi rammentavano l’origine: si trattava del nome che Lord Rinaar Searider, il primo Re di Radharon, aveva scelto per la sua città. Sarebbe stato il sim­bolo della sua impresa, ed avrebbe ricalcato il linguaggio de­gli Dei, come a ricordare il passato che legava la Capitale alla celebre Glandirn. Nel linguaggio degli Dei, comunemen­te definito Chelestian, aveva il significato di “Approdo (Ènd­hàr) del Re (Kròn)”. L'eroe che più amava di quei racconti era indubbiamente Re Kamen, il terzo regnante di Radharon.
«La storia narra dell’impresa che lo rese celebre in tutto il mondo conosciuto. Si dice che il Re non volle impegnare l’e­sercito in un’epica battaglia presso le terre ad ovest del re­gno: a quel tempo i confini di Radharon giungevano sin poco oltre le Terre di Pietra, che lui stesso aveva fatto co­struire. Il resto era composto da terre barbariche, abitate da popoli disorganizzati ed ammucchiati in città prive di legge. Si narra che Kamen fosse ivi giunto con il proprio bianco destriero e, disceso dinanzi ad un grande esercito, avesse im­pugnato la sua affilata spada, levandola alta verso il cielo. Il popolo credeva ciecamente nel suo Re – così come oggi noi crediamo in Lord Arweinar – sebbene nessuno confidasse in una possibile vittoria contro un nemico tanto numeroso. Il sovrano affrontò degli avversari temibili: si dice che fossero più di cento orribili creature assetate di sangue, e le spade di cui erano munite potessero trapassare sino a tre uomini in armatura. La sfida era sicuramente impossibile per un essere umano comune, ma non per Kamen, poiché egli era un Re, ed aveva dalla sua parte il sangue nobile di molte battaglie, oltre a poter vantare antenati che avevano combattuto du­rante la celebre Guerra degli Dei. Spinto dal suo immenso co­raggio e dalla sua invidiabile capacità sul campo, sconfisse le creature con abilità, ristabilendo la pace momentanea!».
Ogni volta che l’uomo giungeva a questo punto, Leirien bal­zava in piedi e fingeva di essere il cavaliere che affrontava l’e­pica contesa, saltando qua e là: ci voleva qualche minuto pri­ma che il sacerdote riuscisse nuovamente a farla sedere per proseguire il proprio racconto. La piccola seguiva con atten­zione ogni minimo dettaglio, che riportava attentamente quando giocava all’interno della propria stanza, e attendeva trepidamente il finale, quasi come non l’avesse mai udito.
«Kamen stabilì così un breve periodo di pace, eppure il ne­mico in pochi mesi giunse nuovamente a turbare la quiete di Èndhàr’ Kròn: un grande esercito minacciava l’assedio, e Ka­men ancora una volta scese in battaglia da solo, supportato solo dal proprio destriero. Impugnò la sua spada e minacciò l’armata assalitrice, presagendo la sua imminente sconfitta. La invitò a fare dietrofront, per mantenere salve le loro vite. Tuttavia il nemico non accettò facilmente le sue parole, e lo costrinse alla battaglia. Dopo aver abbattuto cinquanta di quelle orribili creature, Kamen si preparò ad affrontare l'im­presa più grande di tutte: puntò la propria lama verso il si­gnore di quegli esseri, sfidandolo a duello!».
L’uomo si prendeva ogni volta la briga di approfondire lo svolgimento dello scontro, creando sempre un nuovo colpo di scena che poteva far credere che il cavaliere non sarebbe riuscito a sconfiggere il proprio nemico, che tra l'altro mai possedeva una reale volto; eppure l’esito del duello era sem­pre lo stesso. Con tono da impavido proseguiva: «La lama del Re trapassò il nemico, e quell’unico colpo affondò facil­mente le speranze dell’esercito ostile: la vittoria di Kamen di­venne leggendaria, ed il suo nome capace di far tremare gli avversari più coraggiosi. Concesse il perdono a quelle creatu­re, esiliandole dal Regno di Radharon, e divenne così l’eroe più celebre di tutta Èndhàr, e non solo, aggiungerei!».
Leirien batteva forte le mani al termine della storia, chieden­do che le fosse narrata ancora una volta; eppure, quando il racconto terminava, era sempre ora di cenare.
Crebbe in armonia, sebbene le trame avventurose che l’uo­mo amava raccontarle la spingessero al non rispetto delle leggi cittadine, divenendo presto famosa tra i bambini del suo quartiere per la sua smania di lottare. La piccola mostra­va una grande forza ed un’immensa determinazione; non amava tenere i capelli lunghi, e solitamente scorrazzava per le vie del quartiere brandendo uno spadino di legno fattosi co­struire da Gowernon, sotto richiesta del sacerdote. Grazie alla sua rapidità ed alla sua forza, amava imporsi sui bambini del vicinato, costringendoli spesso ad affrontarla tutti assie­me. Il risultato, che si trattasse di uno sfidante oppure di die­ci, non mutava: la piccola metteva tutti a sedere, lasciando loro addosso diversi bernoccoli.
Non trovando alcun degno avversario, passò dal combattere tutti al diventarne l’autoproclamato capo, e questo avvenne dopo aver sconfitto Irdan Olvirion, un ragazzino della sua stessa età, dal viso tondo e di bell’aspetto, con lunghi capelli castano chiaro tendenti al biondo, e due piccoli occhi color del mare e dall'aria furba. Egli era il più alto del gruppo, un vero gigante agli occhi della piccola.
Lo scontro si svolse senza preavviso e senza esclusione di colpi: Leirien desiderava ottenere il controllo di quel piccolo gruppo di marmocchi, dunque Irdan doveva essere battuto, affinché lei potesse sentirsi proprio come Kamen. Armata del suo spadino e pronta a tutto, la piccola si presentò all’in­terno di un vicolo poco distante da casa; quello intanto di­scuteva vivacemente insieme ai suoi compagni di gioco. La bimba dagli occhi di porpora si mise in posa davanti al suo avversario.
«Sir Irdan, ho sentito parlare di voi... Dicono che siete uno forte, ma io non ci credo: secondo me non valete molto!» gli urlò contro spavalda, sfoggiando i termini migliori in suo possesso.
«Tu... Chi sei? E perché parli come i grandi?!» le domandò in risposta, sorpreso da tutto quel fare inadatto per una bambi­na, e specialmente per una femmina.
«Siete stupido o cosa?! Io sono grande, abbastanza grande da battervi! E poi... io sono conosciutissima! Lo stesso Re Ar­weinar ha chiesto il mio aiuto per salvare Èndhàr’ Kròn! Sto radunando un gruppo di valorosi eroi per suo conto».
«Se ne sei convinta...» la snobbò «A me non importa... Vai a giocare con le altre bambine: noi stiamo parlando di cose im­portarti!» la canzonò divertito.
«Voi... pagherete!» esclamò, scagliandosi come una furia con­tro Irdan, agitando lo spadino sopra la sua testa.
Senza esclusione di tirate di capelli, dita negli occhi e nel naso, morsi e pizzichi, si esibirono in una bizzarra quanto as­sai accanita lotta. Se le diedero di santa ragio­ne, mentre i coetanei, che sino a quel momento erano rimasti in­differenti, osservavano con crescente sorpre­sa la forza di quella fanciul­la. Nei loro occhi poteva cogliersi un misto di ammirazione e di paura, ma nessuno avrebbe mai avuto il coraggio d’am­metterlo. Stremati ed affaticati dal­la lotta, i due si ritrovarono fianco a fianco, ansimanti e con lividi in tutto il corpo, ma ancora nessuno dei contendenti era riuscito a guadagnarsi il titolo di vincitore.
«Allora, vi arrendete?» domandò Leirien tra una tirata su con il naso e l’altra.
«No, mai contro una ragazza!» ribatté Irdan.
«Arrendetevi... Sono stanca di picchiarvi!» quasi lo supplica­va, mentre il pugno destro centrava a fatica la spalla dell’av­versario.
«Anche io sono stanco di prenderle... Ma non posso arren­dermi!» rispose quello, mentre a stento teneva gli occhi aper­ti.
«Uffa!» sbuffò infastidita. «Se vi arrendete, sarete il mio vas­sallo... Che ne pensate?».
«Un che cosa?» domandò con totale ignoranza.
«Uno dei miei cavalieri fidati...» rispose, mentre un altro pu­gno veniva indirizzato sul punto precedentemente colpito. «Allora?!».
«E va bene! Però così mi fai male... Tu come ti chiami?» do­mandò massaggiandosi l'arto dolorante, lasciando la presa.
«Leirien! Quante volte devo ripeterlo?» gli urlò contro men­tre si rimetteva in piedi.
Il bambino la guardò negli occhi, notando per la prima volta quanto fossero strani, mentre indietreggiava appena tenen­dosi la spalla destra.
«Ora dovrei andare, Sir Irdan, avvisate i soldati: che rompa­no le righe. Vado a pranzare, altrimenti mio padre si arrab­bia! Suvlad!».
«Si dice Suilad...» esclamò Irdan aggrottando le sopracciglia.
Neanche terminato di salutare, Leirien era già scomparsa alla vista dei ragazzini, sfrecciando tra le bancarelle ed il costante via vai dei cittadini della Capitale. Da quel giorno in poi, la ragazza strinse una forte amicizia con Irdan che, effettiva­mente, sarebbe divenuto il suo cavaliere più fidato.


CONTINUA SU....

Le ombre del Destino, Il Cavaliere dagli occhi purpurei
Capitolo II: Il ragazzo che conosce la guerra


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